Lo sguardo di Dioniso nelle Baccanti di Euripide

Il critico teatrale polacco Jan Kott (1914-2001) scrive che Penteo, protagonista delle Baccanti, celebre tragedia euripidea, “si trasforma in capro espiatorio. Il capro espiatorio è un surrogato che deve somigliare a colui che sostituisce” (J. Kott, 1973).

Penteo, re di Tebe, era stato soggiogato da Dioniso e condotto sul Citerone, il monte adiacente la città, per osservare, nascosto, un rito orgiastico al quale stava partecipando anche la madre Semele. Penteo, nella prima parte della tragedia, vuole cacciare Dioniso dalla città, non è disposto ad accettare il dio e il suo seguito, ma, ironia della sorte, Penteo si trasforma nel capro espiatorio di Dioniso: si identifica con il dio, ma non essendo egli un dio, verrà poi sacrificato alla vera divinità.

In questa intricata e onirica vicenda lo sguardo ha un ruolo fondamentale: Penteo diventa il “pazzo osservatore delle menadi” (Baccanti, v.981), verrà scoperto e subirà lo sparagmòs, lo squartamento, attuato dalla madre ancora in estasi, per poi essere sacrificato a Dioniso.

Da persecutore, Penteo, diventa il perseguitato dal dio e dal suo seguito di baccanti, questo perché assiste, perché vede, perché conosce[1], proprio come successe a Dioniso bambino che scoprì se stesso nello specchio e allo stesso tempo vide i titani che lo stavano per dilaniare.

Molti temi si collegano a quello dello sguardo, come il tema dell’alterità, del doppio o anche quello dell’hybris, della tracotanza, del volere sapere troppo per essere solo un uomo, termine in questo caso inteso anche come “essere maschile”, in quanto non solo Penteo voleva cacciare Dioniso da Tebe, ma (anche se già sotto il controllo del dio) desiderava assistere al rito orgiastico riservato alle donne.

Questo ci dovrebbe dare l’idea della potenza dello sguardo dionisiaco: può portare gli scettici a seguirlo (talvolta alla morte come il povero Penteo), sottomettere, e perfino accompagnare sulla via dell’ebrezza, anche se solo dipinto su un’anfora.

[1] Non a caso, il perfetto del verbo greco horào, “vedere”, ossia oìda, si traduce spesso come “io so” (e non come “ho visto”), in quanto risultato dell’azione di “avere visto” (“ho visto” quindi “so”).

Un progetto di Danila Franceschetto.

L’AUTORE

Danila Franceschetto

Una laurea in storia a Torino e una passione smodata per la cultura e letteratura greca. Quando non leggo, scrivo. Da un po’ vivo in Toscana, nel tempo libero se non sono al cinema mi trovate al mare!

Dal 2019 collaboro con Siti Archeologici d’Italia.

Sogni nel cassetto? Tanti! Ma uno ve lo svelo, lavorare in un museo sarebbe davvero fantastico!