Un caffè con… Daniela Castaldo

Daniela Castaldo, docente di Musicologia all’Università del Salento, autrice di “Musiche dell’Italia antica, introduzione all’archeologia musicale”, AnteQuem edizioni 2012.

Benvenuta Daniela! Grazie di essere qui con noi.

È un piacere, grazie a voi per l’invito.

Intervista con Daniela CastaldoMusiche dell’Italia antica, introduzione all’archeologia musicale. Un libro che ci è piaciuto davvero molto. Partiamo da qui! 

L’archeologia musicale è un mondo tutto da scoprire, vuoi raccontarci qualcosa?

Si, è un bel mondo, un mondo che in questi ultimi anni è stato riscoperto in modo ampio, anche se è dal rinascimento che ci occupiamo di archeologia musicale.

In quel periodo l’approccio era molto diverso, si faceva riferimento alle fonti visive, questo perché i frammenti degli strumenti musicali reali, gli oggetti musicale per eccellenza, sarebbero venuti alla luce solo a partire dalla fine del ‘700, con i ritrovamenti pompeiani.

Se pensiamo ad esempio a Giovanni Battista Doni, siamo all’inizio del 600, notiamo come già allora ci fosse un interesse per questo argomento. Era però un interesse tutto filologico, che faceva riferimento alle immagini, partendo da quello che si poteva vedere all’epoca, non tanto dai vasi quanto dalle pitture, dalle immagini raffigurate sulle monete.

Una disciplina che ha dunque secoli di storia, ma come si è evoluta? E cos’è oggi l’archeologia musicale?

Direi che oggi è un campo di ricerca assolutamente interdisciplinare in cui confluiscono dei filologi, che hanno una tradizione molto solida alle spalle e in misura minore degli archeologi e chi si occupa della musica attraverso le immagini, dell’iconografia.

Questo campo di ricerca è un punto di incontro tra diverse discipline e solo grazie alla collaborazione tra queste diverse discipline possiamo ottenere dei risultati.

A queste competenze, ultimamente, vanno ad aggiungersi anche quelle relative alle così dette “scienze dure” i fisici ad esempio sono spesso coinvolti.

In questa fase, ad esempio, stiamo lavorando ad un progetto sulla ricostruzione virtuale di uno strumento musicale rinvenuto nella necropoli Romana di Voghenza, lo stiamo facendo in collaborazione con degli ingegneri del suono dell’Università di Padova. Restauri virtuali, l’utilizzo di stampanti 3D, vere e proprie TAC sull’oggetto, una ricostruzione virtuale per arrivare ad una stampa in 3D che ci permetta di recuperare le caratteristiche dello strumento, le sonorità proprie.

Un esempio di competenze molto diverse tra loro che sono tutte necessarie per arrivare ad un risultato, in questo caso per arrivare a riprodurre un suono.

Esatto, possiamo dire che il suono, la forma dell’oggetto, sono il punto di partenza.

Contestualmente ci interessa capire dove lo strumento è stato rinvenuto, la contestualizzazione del rinvenimento, che funzione aveva questo strumento, da chi era utilizzato.

In realtà possiamo affermare che l’oggetto musicale, lo strumento, è il punto di partenza per fare tutta una serie di discorsi, per comprendere quale fosse il ruolo della musica nelle società antiche, un ruolo molto più centrale di quello che possiamo immaginare, e questo è importante.

Quella musicale è una vera e propria chiave di lettura per comprendere le società antiche.

Da cosa nasce questa tua passione per la disciplina? Per la musica antica? 

Come per molti colleghi che si occupano di queste cose, anche nel mio caso il punto di partenza è stata la doppia competenza, musicale e da antichista. Mi sono diplomata in pianoforte, strumento che tra l’altro non suono da molti anni, e laureata con una tesi sull’iconografia musicale nella ceramica attica. 

Sono partita da lì e poi col tempo ho avuto modo di approfondire queste tematiche.

In questo periodo invece ho scoperto un campo tutto nuovo, che mi intriga moltissimo, che è quello della ricezione di tutto questo, ad esempio la ricezione nella pittura dell’età Vittoriana, penso ad Alma-Tadema e a tutto questo filone. Cioè trovo interessante osservare come in qualche modo la musica, gli elementi musicali, vengano riletti, ricontestualizzati, rifunzionalizzati in epoche molto lontane da quelle in cui sono state prodotte.

Oggi, in questa disciplina, l’Italia a che punto è? Siamo all’avanguardia? Seguiamo i trend di ricerca interazionali?

Si, il trend di cui parlavo, relativo alle ricostruzioni virtuali è un settore secondo me su cui siamo molto all’avanguardia.

Mi è capitato ultimamente, ad un convegno, di ascoltare dei colleghi di un museo inglese, che stanno facendo delle cose analoghe e mi sono resa conto che noi siamo molto più avanti. Siamo all’avanguardia anche tecnologicamente. Questo mi ha fatto molto piacere perché si tende ad avere una sorta di complesso di inferiorità rispetto al mondo anglosassone mentre invece, talvolta, ti rendi conto che non è così.

E ti rendi conto anche, e questo ho avuto modo di constatarlo confrontandomi qualche mese fa con dei colleghi francesi, che pur avendo molte meno infrastrutture riusciamo spesso ad ottenere risultati analoghi, con mezzi infinitamente inferiori rispetto a quelli che hanno gli altri, parlo di mezzi tecnici. Questo grazie all’entusiasmo alla capacità e alle competenze delle persone che magari sono molto meno numerose ma che insieme riescono ad ottenere risultati analoghi, di grande valore, e questo trovo sia straordinario.

Per cui si, siamo all’avanguardia, sebbene sia ancora difficile far passare questo tipo di approccio, soprattutto per quanto riguarda il dialogo con le realtà museali, le soprintendenze, insomma si è sempre visti con un po’ di sospetto quando vai a chiedere delle informazioni o proponi di lavorare su degli oggetti che loro conservano.

Insomma, non è semplice, ma direi che siamo a buon punto, le cose sono molto cambiate ultimamente.

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In questi anni di ricerca immagino che il tuo lavoro sia passato anche per tanti suoni. Qual è il suono che più ti ha emozionato?

La cosa forse più frustrante di questo tipo di studi è il fatto che è un lavoro molto silenzioso. 

Il suono te lo devi andare a cercare in determinati contesti, quando si parla di riproduzioni di suoni non è ovvio. 

Ad esempio, se uno va in un museo in cui c’è un carapace di tartaruga che era una cassa di risonanza di una antica lira, tu la vedi ma non suona.

Tu vedi il sistro esposto, non puoi prenderlo e farlo suonare e questo è molto frustrante. Per questo trovo utile, durante le conferenze e gli incontri con il pubblico, coinvolgere dei musicisti in grado di suonare questi antichi strumenti, strumenti riprodotti nel modo più fedele possibile all’originale. Questo ha sempre un grande successo, perché è frustrante parlare di musica e non sentire dei suoni, come avverrebbe in qualsiasi altro contesto.

Però c’è una cosa che mi ha veramente emozionata ed è il suono del sistro, che uno immagina in un certo modo ma che in realtà è molto diverso.

Mi è capitato appunto di assistere ad un momento in cui questi sistri, sono stati tirati fuori dalla vetrina, ero al museo archeologico di Bologna, sono stati fatti risuonare ed avevano un suono completamente diverso rispetto a quello che mi sarei aspettata. Una curiosità più che altro.

A parte questo, parlando della musica, più che della sonorità, a volte le musiche antiche sono così lontane dal nostro gusto, dal nostro “orecchio” che alla fine si ascoltano queste musiche come si potrebbe osservare un reperto archeologico. Di solito noi leghiamo al concetto di musica una parte di piacere, un elemento estetico che non necessariamente ritroviamo nella musica antica. Alcune volte ci sono delle musiche che sono assolutamente lontane dal nostro gusto e tu le ascolti perché è un documento e non perché ti fa piacere ascoltarle, è un modo un po’ diverso di affrontare il discorso.

Oggi ti capita di collaborare con dei musicisti per creare le condizioni che permettano di ascoltare questi suoni. Come interagisci con i musicisti? Che tipo di ricerca fate insieme?

Immagino si utilizzino strumenti il più possibile fedeli all’originale.

Si, anche se di solito non mi occupo molto di questi aspetti. Il mio collega austriaco cerca di recuperare tutte le fonti, anche visive sullo strumento. Parte dall’oggetto che è esposto, lo studia, lo misura, dopodiché sulla base di quello fa delle ricostruzioni, ecco quello è il grado più alto direi. Perché poi molte volte ho assistito anche a delle performance di musicisti che suonano su degli strumenti che sono veramente molto fantasiosi, insomma ecco, tra questo grado zero e il grado più alto ci sono poi tutta una serie di gradi intermedi.

Sfumature di colore.

E va benissimo che ci siano queste sfumature, bisogna però esserne consapevoli. 

Cito ad esempio quanto fatto con il Karnyx di Sanzeno, una sorta di tromba alta, che si suona in verticale. Questo Karnyx è stato riprodotto e utilizzato per delle sperimentazioni musicali, è stata composta della musica, che va benissimo, perché è uno strumento come un altro però dobbiamo ricordarci che non è musica antica.

Una forma di contaminazione, dove lo strumento antico viene utilizzato per costruire un linguaggio contemporaneo.

Esattamente, e va benissimo tutto questo, però la cosa che a volte non si fa e che è veramente fastidiosa è il fatto che spesso viene fatta passare per musica antica qualcosa che non ci assomiglia neanche lontanamente.

Va bene tutto, però che sia chiara l’operazione che si sta facendo, perché sennò in qualche modo è un po’ come prendere in giro le persone. Ci sono tantissimi gruppi che fanno questo. 

E quando non ascolti musica antica, che musica ascolti?

Ascolto la radio, un po’ tutto quello che mi capita, tra cui anche musica classica, sono onnivora in questo senso, non ho delle preferenze. Una cosa che non ascolto però, che proprio faccio fatica ad ascoltare, è l’Opera.

Una domanda su Musiche dell’Italia antica, il libro che hai pubblicato nel 2012 (edizioni AnteQuem). Rileggendo oggi questo tuo lavoro, cosa vedi?

Rileggo queste pagine come un punto di partenza per fare altro.

Perché poi, alla fine, questi articoli, questi testi che si scrivono, invecchiano con una rapidità straordinaria, almeno nella testa di chi li ha scritti. 

Per cui rileggendolo vedi quello che avresti cambiato e vedi che, magari, adesso le cose le avresti scritte in un altro modo, ma questo penso che sia una cosa comune per tutti quelli che scrivono un testo. Il fatto che dopo dieci minuti già dici “ma chi l’ha scritto questo testo?” e lo vorresti cambiare.

Però è un lavoro che mi ha dato soddisfazione e adesso riparlandone e riprendendolo, proprio in occasione di questo nostro incontro, mi ha fatto venir voglia di partire da li per fare delle altre cose.

E guardando al futuro? Nuovi progetti?

Adesso sto pensando ad un progetto, un’idea che sto coccolando da anni, e spero sia giunto il momento di realizzarla. Una cosa che non c’entra con la scrittura di testi.

Stiamo pensando ad un progetto di catalogazione degli strumenti musicali antichi e vorremmo farlo in collaborazione con dei colleghi francesi e con l’associazione dei musei, un progetto scientifico. 

E poi ho sempre in mente, e vorrei lavorarci, il tema della ricezione. 

Mi piacerebbe molto dedicarmici anche se, alla fine, più passa il tempo più si fatica a trovare dei momenti, il tempo utile per fare un lavoro strutturato.

Vorrei indagare sistematicamente il tema. Sono rimasta intrigata, facendo questi studi su Alma-Tadema, su Leighton, nel vedere la contaminazione che c’è con il teatro. Il teatro che ripropone dei temi antichi e la pittura, cioè le arti figurative, perché mi sono resa conto che c’è un collegamento molto forte e che le due cose si condizionano a vicenda. Anche la pittura condiziona il teatro, e il teatro condiziona la pittura, per cui i pittori rappresentano degli oggetti e dei personaggi che sono reali, ma sono realmente teatrali, non sono quelli antichi veri, e tutto questo è molto intrigante. 

Saremo curiosi di scoprire queste novità, non appena prenderanno forma.

Grazie per essere stata con noi!

Grazie a voi, è stato un piacere.